In tempi di ecocidio

Alcune questioni attuali per l’azione anarchica

Il testo è apparso originariamente sul primo numero della pubblicazione Takakia, una rivista francese che si occupa di critica radicale anarchica alla società tecno-industriale e per una resistenza libera e selvatica alla civilizzazione capitalista. Come si suggerisce il sottotitolo di questo testo, in tempi di ecocidio e di collasso, come anarchici impegnati nella lotta per la liberazione della terra e contro la società tecno-industriale, dovremmo porci delle questioni attuali al fine di comprendere al meglio quali sentieri e rotte vogliamo seguire per attaccare, difenderci, resistere e costruire una vita radicalmente diversa da quella imposta dalla civilizzazione capitalista. Questioni attuali anche e soprattutto perchè il tema della liberazione della terra (del territorio, della natura o del selvatico, chiamiamolo come più ci aggrada) sembra riscontrare scarso interesse all’interno del movimento anarchico più ampio, che continua a non accorgersi di come sia inconciliabile il progresso tecnologico-industriale con spazi di reale autonomia ricercati in senso libertario. Al contrario, popolazioni indigene e altri ribelli antiautoritari, hanno compreso da tempo che il terreno di scontro non può che essere quello ecologico e anti-industriale. Perchè la nostra libertà è legata inesorabilmente con quella della terra e dei suoi abitanti animali e vegetali.


La questione è urgente. Forse non tanto per “salvare il pianeta” come lo conosciamo (perché i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e la devastazione della natura hanno ormai superato i punti critici per cui “riportare indietro le lancette” riducendo gradualmente l’impronta mortale della società industriale non sembra più nemmeno pensabile), quanto per porci una domanda che richiede risposte decisive. Quale direzione dobbiamo dare alle nostre lotte oggi, date le condizioni che dobbiamo affrontare e quelle che si profilano all’orizzonte? Perché le nostre battaglie si svolgono in determinate condizioni, che variano e influenzano i nostri approcci e che dobbiamo includere nei nostri progetti. Sono condizioni politiche, economiche, sociali… e anche “ambientali”.

Quest’ultimo fattore non sembra essere sempre preso sufficientemente in considerazione nei circoli anarchici. Tuttavia, moltissimi conflitti (particolarmente accesi nelle frange più “periferiche” della megamacchina) mettono in evidenza questo fattore ambientale… e spesso finiscono per sostenere la radicale incompatibilità tra progresso industriale e autonomia. Ciò che resta della flora e della fauna selvatiche vede scomparire rapidamente il proprio mondo e il proprio habitat a causa dell’avanzata spietata della macchina industriale, delle sue devastazioni e dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, decine di milioni di persone ne subiscono tutte le conseguenze, sulla scia di tutte le sofferenze e le intossicazioni causate dall’avvento della modernità industriale: condannate alla fame, private dell’accesso all’acqua, coinvolte in guerre civili per il controllo delle risorse, minacciate dall’innalzamento del livello dei mari, decimate da tempeste devastanti e inondazioni mostruose, asfissiate da ondate di calore infernali.

Questa è l’altra faccia della realtà che non possiamo più permetterci di ignorare nella nostra lotta per la libertà.

Perdersi… o cambiare direzione?

Se questo ci spinge ad ampliare i nostri orizzonti, a confrontarci con le motivazioni, le idee e le sensibilità espresse in queste lotte e conflitti qua e là, ad avvicinarci a ciò che resta della natura selvaggia, a quanto pare provoca anche una sospettosa irritazione. Se da un lato ci incoraggia a cercare di capire la portata del disastro in atto e come questo possa cambiare le condizioni e la direzione delle nostre lotte, dall’altro lato altri la vedono come un’ingoiata di propaganda scientifica e di meschina strategia opportunistica. Infine, dovremmo cercare di arricchire l’anarchismo, di dargli più colore, in particolare attingendo ad altre correnti di pensiero, come gli ecologisti che hanno contribuito a scuotere le fondamenta dell’antropocentrismo, a mettere in discussione il rapporto utilitaristico con il mondo vivente che ci circonda o la logica dell’addomesticamento su cui si basano le civiltà statali, a scalzare l’economismo – nelle sue varie forme – dal suo piedistallo.

Ma non siamo immuni dagli avvertimenti veementi di altri ribelli antiautoritari.

Il desiderio di pensare e sperimentare la natura come binomio inscindibile della libertà sarebbe un pendio scivoloso che eliminerebbe la questione sociale (i rapporti di sfruttamento all’interno della società umana) dall’orizzonte della sensibilità. Concentrarsi sul sistema tecno-industriale introdurrebbe di nascosto una nuova “priorità” nella lotta, finendo per ignorare o addirittura avallare i rapporti di dominio. Un richiamo – di fronte all’apocalittica crisi ecologica e alle tensioni estreme che questa sta generando all’interno della società tecno-industriale – all’urgenza di intraprendere la resistenza, di prepararci e di dissotterrare l’ascia di guerra, ci distrarrebbe da altre questioni “ugualmente importanti” e potrebbe persino portare a un’escalation militarista. Infine, l’“infatuazione ambientalista” di alcuni ribelli fornirebbe materia prima per il lavoro degli Stati e del sistema capitalistico, che stanno lavorando, come sempre e invariabilmente, in silenzio per estendere e approfondire il loro dominio, e ora cercano di capitalizzare sul catastrofismo. 

Tuttavia, l’attuale slancio “ambientalista” o anti-industriale non è il prodotto di una manipolazione mediatica al servizio del nuovo ecologismo: ci sono tanti motivi per essere davvero arrabbiati ed esasperati. Allo stesso modo, pensare ai vari collassi attuali o possibili (dei biotopi, di alcuni Stati e società alla periferia dello sfruttamento capitalistico, di modelli di produzione che stanno raggiungendo i limiti di ciò che gli ecosistemi possono sostenere, ecc.) possono sembrare teorie inverosimili che giustificano l’attesa e la rinuncia alla lotta, ma d’altra parte possono aiutarci ad analizzare e comprendere le reali instabilità (sociali, ambientali, economiche… e anche “spirituali”) che stanno scuotendo questo mondo nel profondo. L’anarchismo ha sempre bisogno di essere arricchito, e in quest’epoca in cui la civiltà umana (o meglio, industriale) è diventata la principale forza che sta cambiando la terra e il suo clima, superando le forze geofisiche, è addirittura imperativo farlo, a rischio di condannarsi alla paralisi o al solipsismo.

Sia in termini di immaginario (impoverito da quando il rullo compressore capitalista ci ha trasformati in orfani, senza legami con l’ambiente circostante, senza storie, senza connessioni, senza territori, abbandonati alle sole narrazioni del potere e sempre più dipendenti dal virtuale), sia in termini di analisi (a volte crudelmente prive di profondità e precisione) e di conoscenze (piuttosto frammentarie), senza ovviamente abbandonare il nostro spirito critico e i nostri standard etici. Allo stesso modo, le lotte “ecologiste” passate e presenti contro la devastazione ambientale e gli incubi industriali, o i conflitti tra popoli o tribù indigene e l’accelerazione della rivoluzione industriale, non sono sempre facili da comprendere.

Le tribù contro i monopoli capitalisti e statali (come a Wallmapu, nel Canada settentrionale, nel delta del Niger, in Papua Nuova Guinea, nelle montagne della Birmania, ecc.) sono ricche di insegnamenti, in particolare per l’anarchismo nell’era del cambiamento climatico. Che si pensi al legame tra movimenti di resistenza e pratiche di sabotaggio, alla questione del rapporto tra territorio e autonomia, alla vicinanza con il mondo selvaggio e all’etica che questo infonde, o alla relativa resilienza dell’autarchia di fronte al sistema industriale, vediamo sempre la stessa questione centrale, per così dire “ecologista”, di un diverso rapporto tra l’uomo e ciò che lo circonda, di una diversa comprensione e percezione della natura. Sono battaglie che riescono non solo ad attaccare ciò che li distrugge, ma anche a custodire, amare e difendere ciò che viene attaccato, ciò che costituisce la fibra vitale della loro esistenza.

È questo che ci deve far riflettere

1. Oggi molti conflitti nascono contro progetti industriali specifici (un mega-bacino, una fabbrica inquinante, una nuova autostrada, antenne a ripetizione, un parco fotovoltaico, una discarica di rifiuti nucleari, una miniera, ecc.) Talvolta imponenti, ma il più delle volte molto più modesti, sono tutti punti di svolta in cui è latente la tentazione di agire direttamente, di attaccare una struttura dannosa.

2. Queste lotte sono ancora spesso confinate alla sfera della protesta dei cittadini o della disobbedienza civile, preda di dirigenti di servizi o addirittura di recuperatori in cerca di rinnovatori per costruire la “transizione energetica” e l’inverdimento dell’industria. Ma è chiaro che proprio l’esperienza del coinvolgimento nella lotta, anche in modo “parziale”, del metterci il cuore, favorisce l’emergere di una consapevolezza e di uno sguardo critico più ampi, tanto più quando esistono altri punti di riferimento più radicali nella lotta. D’altra parte, all’interno di queste lotte, ma anche più ampiamente nella società, si diffondono nella mente e nel cuore delle persone immaginari di resistenza radicale e sotterranea alla megamacchina industriale – spesso alimentati da esempi minoritari, ma anche da racconti, storie e miti. Nonostante l’enorme apparato utilizzato per integrarle e renderle inoffensive, non è detto che sarà difficile smontarle quando si diffonderanno tentativi ed esperienze reali, per quanto minoritarie. 

3. I piani di reindustrializzazione dell’economia e di riorganizzazione della produzione energetica del governo francese (come del resto quelli di altri paesi europei) fanno pensare che questi conflitti aumenteranno. La “transizione energetica” non fa altro che prolungare l’agonia, mentre la reindustrializzazione (così come la corsa alle risorse, ora non inibita dalle nuove tecnologie verdi, e l’estensione del modello agroindustriale) potrebbe rappresentare il colpo finale all’ecocidio in corso. 

4. Fattori apparentemente “esterni” come l’ aggravarsi delle condizioni climatiche (accesso all’acqua) o delle tensioni geostrategiche (guerra, controllo delle risorse, migrazioni massicce dovute alle conseguenze del cambiamento climatico) giocheranno un ruolo crescente nella possibile estensione di queste lotte, e persino nella loro evoluzione verso forme più offensive, più insurrezionali. D’altra parte cformalmente destinate a rimanere nei limiti della non violenza e della disobbedienza civile, stanno già dando luogo a un’opposizione più decisa, una “radicalizzazione” che sembra preoccupare i garanti dell’ordine e i governanti. 

6. Le azioni di blocco e sabotaggio su questi siti stanno aumentando di portata e profondità.

Sempre più progetti/strutture industriali o di ricerca vengono attaccati; allo stesso modo, le infrastrutture che fanno funzionare la società industriale (dalle stazioni radio base alle fibre ottiche, dalle ferrovie alle infrastrutture elettriche) vengono prese di mira sempre più spesso. Un simile approccio all’azione sovversiva sembrerebbe adattarsi bene ad alcune delle sfide odierne (l’arresto del rilancio industriale e la transizione energetica) e al livello di attacco che si può prevedere al momento*.

7. Infine, se è vero che il cambiamento climatico accentuerà le tensioni sociali nei decenni a venire, è anche probabile che queste tensioni infiammino grandi territori. Se assisteremo a guerre tra Stati, guerre civili, regimi totalitari o resistenze insurrezionali e libertarie, dipende anche dalle battaglie più modeste che stiamo conducendo oggi e dalle prospettive che finiscono per creare e incarnare.

Da una cosa all’altra, da un’ipotesi all’altra, da un sogno all’altro, finiamo per mettere insieme pezzi di immaginazione, analisi e progettualità che non sono garanzie, ma che possono permetterci di agire nel mondo di oggi. Di agire, con il cuore e con la testa, non solo di riflesso. Questo è ben lontano dall’approccio militante, in cui le varie attività sembrano slegate tra loro, senza una prospettiva a medio e lungo termine. Lo scenario che abbiamo davanti non solo suggerisce l’importanza di interagire direttamente o indirettamente con questa conflittualità “ecologica” che si esprime in molti luoghi diversi. Non solo ci incoraggia a trarne ispirazione e a mettere in campo competenze tipicamente anarchiche come l’azione di piccoli gruppi, la critica pratica allo Stato e alla mediazione, l’auto-organizzazione e l’autonomia (rifiutando di accomunare i portavoce più o meno esecrabili, i loghi molto mediatici o gli aspiranti negoziatori con le migliaia di persone molto diverse che stanno intraprendendo la lotta). Ci mette anche di fronte a noi stessi e ci incoraggia a uscire allo scoperto. A dissotterrare l’ascia di guerra, a lottare ferocemente per la nostra libertà, che è anche fondamentalmente legata alla foresta e alle piante, alle rocce e ai fiumi, agli altri esseri viventi, al clima – in breve, alla natura, non come oggetto esterno, ma come forza viva costitutiva del nostro essere che ci lega a tutto ciò che ci circonda. È questa forza che sta subendo gli implacabili assalti ecocidi di una società industriale senza futuro. È questa forza che si difende, in un modo o nell’altro. È questa forza che ora ci invita a varcare la soglia e a unirci alla resistenza.

Gwelf, entusiasta come sempre

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