Questo testo è stato scritto dal collettivo Knowing the Land is Resistance nel dicembre del 2013. Knowing the Land is Resistance è un collettivo che ha sede nella rimanente foresta caroliniana situata tra la scarpata del Niagara e il lago Ontario, nel territorio tradizionale del popolo Chonnonton, oggi noto come Ontario sud-occidentale. In questa zona, quasi tutta la foresta è stata abbattuta e, con pochissime eccezioni, tutte le praterie e le savane sono state disboscate. Il collettivo ha cercato negli anni attraverso opuscoli, testi e laboratori di condividere le competenze, le conoscenze e le prospettive che ha acquisito giocando nella foresta, cercando così di ispirare altra gente ad uscire per scoprire gli spazi selvatici del territorio in cui abitano.
Il testo qui tradotto, nonostante sia stato scritto più di dieci anni fa, è ancora estremamente urgente e attuale visto il collasso portato avanti senza tregua dalla civilizzazione capitalista e dal mito del progresso tecno-industriale. E’ urgente perchè ci ricorda che siamo tutti legati alla terra su cui viviamo e che questa connessione resiste nonostante una vita addomesticata e sempre più separata dal mondo selvatico. E’ attuale perchè ci suggerisce che senza tornare ad incantarsi e a conoscere profondamente i territori che abitiamo e i suoi abitanti animali e vegetali (invece di parlare di natura in senso astratto) non potremo in nessun modo costruire relazioni e comunità realmente connesse alla terra e non più addomesticate. Perchè inselvatichirsi e re-incantarsi sono l’antitesi al collasso perpetuato dalla società tecno-industriale e ai suoi mortiferi miti del progresso e dello sviluppo.
Siamo tutti legati alla terra e, nel profondo di noi stessi, questa conoscenza continua a esistere. Si risveglia in noi quando siamo fuori nei prati selvatici e ricoperti di sterpaglie che si spingono sempre ai margini della città, oppure si fa strada nella nostra coscienza, interrompendo la nostra routine e ricordandoci ciò che conta.
Eppure, esiste una marea pervasiva che può trascinarci via da quella connessione. La società promuove e impone un modo di vivere che è del tutto opposto al lasciarsi incantare dalla terra. Questo spiega molto bene dove siamo stati nei sei mesi trascorsi dal nostro ultimo post…
Tutti noi ci lasciamo travolgere a volte per tanti motivi diversi. L’importante è assicurarsi di fuggire dalla nostra vita quotidiana, anche solo per una mezza corsa vertiginosa al molo durante la pausa pranzo del turno di notte, per urlare e ridere contro i venti dell’inverno in arrivo. Molto probabilmente vi imbatterete in meravigliose sorprese, come la fragola selvatica e l’artemisia che crescono dall’asfalto. O forse troverete il tempo di stare fuori dalla porta, con il viso riscaldato dal sole, a osservare una ghiandaia azzurra impertinente. Queste sorprese ci aprono il cuore, ricordandoci in modo eloquente l’incredibile bellezza e resilienza della natura selvaggia. Anche quando torniamo al lavoro, permane la sensazione di essere sempre connessi a quella grande rete di vita, di esserne sostenuti e curati.
Reincanto è la parola che secondo il nostro collettivo descrive meglio questo tipo di sentimento e di azione. Si tratta di curiosità, entusiasmo, gioco e desiderio di condividere tutto questo con gli altri. Ci sforziamo di far crescere i nostri pensieri e le nostre azioni da questo re-incanto, e pensiamo che sia contagioso. Poiché vuole diffondersi ed essere condiviso, il re-incanto non è un ritiro. Non c’è abbastanza spazio selvaggio perché la ritirata sia un’opzione, e i tentativi di fuga personale rischiano di lasciare per ultimi i bisogni della terra e di coloro che sono più feriti dalla società coloniale. Sentiamo l’urgenza di reagire, di tenere le dure verità nei nostri cuori anche se perseguiamo la bellezza e la ricchezza.
Il reincanto è un processo a volte difficile e costante. Dobbiamo prenderci del tempo per guarire e nutrire la connessione con la terra con cui tutti siamo nati. Abbiamo inserito il prefisso “re-” prima di “incanto” per celebrare e sottolineare questo aspetto. L’auto-repressione e l’alienazione dalla terra ci vengono attivamente inculcate da forze come l’educazione industriale, i mass media e l’istituzionalizzazione. Ma possiamo rompere l’incantesimo lottando costantemente per ricordare e per diffondere a macchia d’olio il nostro incanto.
Per alcune persone, il peso dei traumi quotidiani e la repressione non lasciano spazio all’incanto. Coloro che sono più feriti da questa cultura di morte sono quelli che perpetrano meno la distruzione e spesso hanno meno accesso a ruscelli curativi e vecchi alberi saggi. Siamo spesso giunti in luoghi in cui la foresta termina improvvisamente per far posto a una gigantesca villa: è un promemoria viscerale del fatto che il facile accesso a spazi selvaggi e sani è direttamente collegato alla classe e alla posizione sociale.
Quando l’accesso allo spazio selvaggio è riservato ai più privilegiati, ciò che è buono per la salute di quegli spazi viene definito dai potenti. E quando sono i potenti a definire cosa è bene per la terra, diventa difficile costruire un movimento per la salute della terra che sfidi anche i sistemi di potere. La maggior parte dei gruppi ambientalisti e di tutela ambientale moderni ne sono un esempio tragico: abbracciano la logica della proprietà privata, della polizia, del controllo sociale e dell’accesso limitato per proteggere sacche di natura selvaggia in modi che sono apprezzati dalle élite. Questo fa sì che le foreste siano viste solo come un altro luogo di svago e crea barriere sociali e psicologiche oltre a quelle materiali: “l’escursionismo” non è uno dei miei hobby, quindi perché dovrei andare nella foresta?
Se vogliamo partecipare ai movimenti di resistenza che sono legati alla terra su cui lottano, allora l’accesso disuguale agli spazi selvaggi può essere una sfida utile da affrontare. Qualche anno fa, abbiamo fatto una serie di escursioni con i giovani di un quartiere locale che, quando li abbiamo incontrati per la prima volta, pensavano che l’unico luogo di ritrovo fosse il centro commerciale. Ci siamo offerti di portarli tutti al cinema se avessero fatto una passeggiata con noi fino a una cascata nelle vicinanze. Correre nella foresta al suono dell’acqua scrosciante, saltare tra le rocce, ridere mentre iniziava a nevicare: queste esperienze parlavano da sole. Dopo quella prima passeggiata, non abbiamo più avuto bisogno di espedienti cinematografici. Grazie al reincanto, alcune delle barriere d’accesso allo spazio selvaggio, il non conoscerlo o l’averne paura, sono scomparse.
Due esempi di gruppi che sostengono i giovani nel re-incanto in modi che ci ispirano sono la Purple Thistle Youth Urban Agriculture Division di Vancouver e Rooted in Rivers di Kitchener-Waterloo. Questi progetti sono stati avviati da persone impegnate politicamente che credono che approfondire il nostro legame con la terra all’interno delle nostre vite o di piccole aree sociali non sia sufficiente. Cercano di entrare in contatto con le persone più colpite dall’ingiustizia ambientale. Questi gruppi comprendono che le relazioni costruite dall’amore per la terra aumentano la nostra capacità e il nostro desiderio di difendere la salute della natura e delle nostre comunità.
Waziyatawin offre una definizione di appropriazione culturale in Unsettling Ourselves che noi prendiamo come principio guida per il nostro lavoro. La parafrasiamo così: se qualcuno trae profitto dalle conoscenze tradizionali indigene su terre tradizionali, mentre molti degli indigeni a cui appartengono tali conoscenze e le terre non ne hanno accesso, e questa persona non lavora per distruggere questi ostacoli e contribuire alla decolonizzazione, allora quella persona si sta appropriando. È una forza colonizzatrice.
Sfortunatamente, i gruppi di conservazionisti e ambientalisti tradizionali, così come molti gruppi ispirati dalla Wilderness Awareness School, rientrano in questa definizione di appropriazione culturale. Questi gruppi, piuttosto che costruire legami nelle comunità colpite dall’ingiustizia ambientale, concentrano i loro sforzi sulla coltivazione della cosiddetta “leadership ambientale” tra le comunità che già godono di un accesso privilegiato agli spazi selvaggi. Inoltre, svolgono un lavoro che scollega il nostro rapporto con la terra da un’analisi del potere o dell’oppressione. Questo significa conoscere la terra ma senza opporre resistenza, conoscere la natura senza decolonizzarla, senza lottare o essere solidali.
La forza delle nostre relazioni, sia tra di noi che con la terra, è la nostra capacità di creare. Vogliamo costruire relazioni che si basino sulla rottura collettiva della foschia delle luci della città a favore di una profonda passeggiata notturna nella foresta, ricordando i modi in cui possiamo e vogliamo adattarci, mettendo da parte le costrittive preoccupazioni di sicurezza della vita cittadina e abbracciando il caos e il rischio! Vogliamo trovare questo spirito di incanto, condividerlo con gli altri e lavorare per far sì che questo spirito riempia le nostre vite e le nostre comunità.