Contro l’autosufficienza, il dono

di Sever da Black Seed No.5

Sabato 21 dicembre dello scorso anno. Nella cornice dell’ultimo vero e proprio squat anarchico sopravvissuto alla famelica distopia della metropoli milanese, succede qualcosa che rompe con l’abitudine interna a certi spazi e con la ripetizione di situazioni sempre uguali, e forse un po’ stantie. Un gruppo di persone, affini e amiche, decide di organizzare un poltatch (mi perdoneranno i popoli indigeni della costa ovest del pacifico per aver preso in prestito un loro rituale) per celebrare con il fuoco le festività consumistiche del capitale, un momento durante il quale bruciare, sperperare e donare gli oggetti più disparati ad amici e sconosciuti. Un momento per stare insieme, raccogliersi intorno al fuoco, parlare, cantare, bere e cenare assieme, azioni semplici inserite nel corredo biologico di homo sapiens dall’alba dei tempi, che creano connessioni sempre più importanti in tempi storici dominati dall’atomizzazione e dall’apatia. Quella serata nel suo piccolo rappresenta per me l’inizio di qualcosa che potrei definire utilizzando il titolo dell’articolo di Sever qui tradotto: “contro l’autosufficienza, il dono”.

Come ogni persona anarchica che desidera ardentemente rompere le catene dell’addomesticamento civilizzato e tornare a vivere un’esistenza selvatica, il grande tema su cui mi trovo spesso a riflettere è il seguente: autosufficienza o creazione di una comunità? Questo è un tema su cui tanti autori e compagni anticiv d’oltreoceano hanno scritto, perchè uscire dalla dipendenza del capitalismo e dello Stato in solitaria è un grosso limite che prima poi presenta il suo amaro conto. Questo perchè non ci può essere nessuna alternativa alla civilizzazione tecno-industriale senza una rete di relazioni e interconnessioni e la creazione di comunità resistenti che vivono insieme sullo stesso territorio, complici e capaci di supportarsi a vicenda. Ed è ciò che ci insegnano tutte quelle comunità che hanno scelta esistenze radicalmente diverse, dai popoli indigeni che resistono all’assimilazione a gruppi umani che tentano la fuga dalla società per le più svariate ragioni. In questo processo di inselvatichimento personale non dovremmo mai cedere alla tentazione dell’autosufficienza che porta in sè i germi del produttivismo, bensì riconoscere nella pratica del dono il vero fulcro di una lotta anticivilizzazione; sia per rompere con falsi surrogati di comunità (collettivi e/o assemblee) sia per rafforzare con la pratica la possibilità di una vita realmente altra a quella imposta dal capitalismo. Il testo scritto da Sever, compagno anticiv statunitense, pubblicato sul quinto numero di Black Seed, affronta proprio questi temi nella maniera più lucida possibile.


La tabula rasa

Affrontando le forze dell’ordine e della legge… alle prese con l’estenuante necessità di distruggere la civiltà… affamati di qualcosa di più, mentre la dieta a base di rivolte e insurrezioni si rivela un buffet sempre più scarso e con rendimenti decrescenti… prima o poi, tutti noi ci poniamo la questione di aprire uno spazio selvaggio dove poterci nutrire attraverso un rapporto sano con la terra, creando una comunità che possa funzionare come una forma di anti-civilizzazione.

Forse raggiungiamo questo punto dopo anni passati a sbattere contro un muro di mattoni. Forse arriviamo a un’analisi strategica delle mancanze delle grandi rivolte sociali che ci circondano. Forse quando compiamo i nostri primi atti consapevoli di ribellione, diamo un’occhiata a quella che viene chiamata “lotta”, basata com’è su proteste, atti di propaganda e scontri illegali, e decidiamo che non fa per noi. O forse il tentativo di creare una sorta di comunità o di costruire un’autosufficienza materiale è il primo passo della nostra radicalizzazione, seguito poi da azioni di scontro e sabotaggio.

Quelli di noi che non provengono da comunità colonizzate – o più precisamente i “senza radici” che sono stati colonizzati così tanto tempo fa e in modo così completo da non averne più alcun ricordo vivo – spesso ammirano le lotte dei popoli indigeni. Dal nostro punto di vista esterno, che è generalmente esotizzante e forse altrettanto spesso fastidioso, sembra che le comunità indigene che lottano per riconquistare le loro terre e la loro esistenza autonoma abbiano qualcosa che a noi manca. Un terreno su cui poggiare i piedi, un certo rapporto con il mondo, forse.

È molto probabile che mi sbagli, ma ciò che è certo, in ogni caso, è che noi senza radici sentiamo questa assenza, e ciò definisce gran parte di ciò che facciamo. Non solo soffriamo della propensione all’astrazione diffusa nella cultura occidentale, ma abbiamo anche la necessità materiale e storica di ricominciare da zero se vogliamo rompere con la civiltà marcia che ci ha creati.

La tabula rasa è un mito antico e pericoloso nella nostra cultura. È il Dio nato da una Parola, la libertà che significa essere liberi dai legami con il mondo, l’uguaglianza matematica da cui presumibilmente nascono le cose buone.

La sofferenza causata dalla tabula rasa si può vedere nelle rivoluzioni dell’Anno Zero [1], nelle utopie fondate su terre rubate, nelle idee perfette imposte con la forza delle armi.

La comunità

Uno dei metodi più comuni messi in pratica dalle persone occidentali per rompere con il capitalismo e creare un mondo nuovo è la formazione di comunità libere. Gli anabattisti intrapresero questa strada per sfuggire al dominio religioso e spezzare la morsa di un feudalesimo ormai in declino e di un capitalismo nascente. I primi socialisti lo fecero con le loro comunità utopistiche. Gli anticapitalisti ebrei lo fecero con i kibbutz. Gli hippy lo fecero con il movimento Back-to-the-Land. Una varietà di gruppi, da MOVE agli Autonomen, lo fecero con le comunità urbane. Gli anticapitalisti lo stanno facendo oggi in manifestazioni diverse come i villaggi occupati nei Pirenei e nelle Alpi, o Tarnac in Francia. E c’è anche il flusso costante di pensionati radicali che si trasferiscono in campagna.

Una tradizione di lotta così longeva e multiforme non può essere liquidata con leggerezza, indipendentemente dalle critiche che potremmo muoverle. Il fallimento, finora, di tutti questi numerosi tentativi di “lasciarsi alle spalle il capitalismo” o di fungere da trampolino di lancio per attacchi all’infrastruttura del dominio o di piantare il seme di un nuovo mondo o qualunque fossero le loro pretese specifiche, trova riscontro nel fallimento di tutti gli altri metodi che abbiamo provato per liberarci. Il fallimento è il nostro patrimonio comune, così onnipresente che difficilmente costituisce un problema o un punto a nostro sfavore. Comprendere la relazione tra ciò che facciamo e i nostri fallimenti: è qui che sta il segreto.

I vari tentativi di creare comunità liberate non possono essere misurati tutti con lo stesso metro, ma vale la pena menzionare un fallimento ricorrente che emerge in modo pervasivo nel nostro contesto attuale. Oggi, la maggior parte delle persone cresciute con i valori culturali occidentali non sa nemmeno cosa sia una comunità. Non è una sottocultura o un ambiente (vedi: “comunità di attivisti” o “processo di responsabilità comunitaria”). Né è una zona immobiliare o una struttura di potere municipale (vedi: “comunità recintata” o “leader della comunità”).

Se non morirai di fame senza le altre persone che compongono il gruppo, non si tratta di una comunità. Se non conosci nemmeno un decimo di loro dal giorno in cui sei nato o sono nati loro, non si tratta di una comunità. Se puoi fare i bagagli e unirti a un altro gruppo simile con la stessa facilità con cui cambi lavoro o ti trasferisci in un’altra università, se il trasferimento non cambia tutti i termini con cui potresti capire chi sei in questo mondo, non si tratta di una comunità.

Una comunità non può essere creata in una sola generazione e non può essere creata da un gruppo di affinità. In realtà, non dovresti avere affinità con la maggior parte delle altre persone della tua comunità. Se non hai vicini che disprezzi, non è una comunità sana. Infatti, è proprio l’esistenza di legami umani più forti dell’affinità o delle preferenze personali che crea una comunità. E tali legami significano che ci saranno sempre persone che preferiscono vivere ai margini della comunità. Il fatto che la comunità lo permetta è ciò che distingue quella antiautoritaria da quella autoritaria.

Un gruppo di anarchici, socialisti o hippy che si ritira sulle montagne per vivere insieme finirà per odiarsi a vicenda. È proprio la presenza di vicini sgradevoli che ci insegna ad apprezzare le persone con cui abbiamo affinità. Una “comunità anarchica” è una proposta odiosa.

Cerchi chiusi

Oggi, la comunità rurale come progetto anticapitalista è spesso motivata dalla ricerca dell’autosufficienza. Le persone che odiano questa civiltà vogliono recuperare il loro potere di nutrirsi, di curarsi, di reimparare le abilità necessarie per sostenere la vita. Una proposta degna di nota, a prima vista.

L’autosufficienza può assumere toni individualistici o isolazionisti, come quando una singola piccola comunità cerca di soddisfare i propri bisogni, oppure può costituire un progetto più collettivo, come quando una rete di comunità cerca di soddisfare i propri bisogni insieme. Può contenere l’assurda convinzione che possiamo sbarazzarci del capitalismo creando un’alternativa ad esso, voltandogli le spalle, oppure può essere un modesto tentativo di vivere meglio e in modo più consapevole mentre partecipiamo a lotte su più fronti contro la civilizzazione. In ogni caso, la stessa costruzione dell’idea tenderà a spingerci in una direzione che, anche se non rappresenta un fiasco, costituisce almeno un’occasione mancata.

Ogni linea d’azione che intraprendiamo ci ritorna come rappresentazione, quando ne parliamo e riflettiamo su di essa. Questa rappresentazione esiste spesso come metafora visiva che a sua volta suggerisce una strategia.

L’autosufficienza è come chiudersi in un cerchio. La immaginiamo come una rottura delle relazioni, la fine di una dipendenza, il sostenere il proprio peso, la chiusura di un cerchio. Alcune di queste metafore visive e le strategie che incoraggiano sono innocue, un mix equilibrato di vantaggi e svantaggi. Altre alimentano direttamente un machismo pionieristico. Ma in entrambi i casi, hanno troppo in comune con un’idea puritana di produttività e indipendenza e con il mito della tabula rasa.

Una “comunità” basata sull’autosufficienza potrebbe finire per essere “murata insieme”, fedele al significato originale del termine (vedi: munis). L’etimologia non è deterministica, poiché il significato è vivo: contestuale, fluttuante e ricco di risorse. In questo caso, l’etimologia della comunità può arrivare a noi come un dono, un avvertimento di ciò che potrebbe accadere se non stiamo attenti.

Non sopportiamo mai il nostro peso e, a dire il vero, non ci nutriamo mai da soli. È la terra che ci nutre e ci sostiene. Tutto ciò che abbiamo e che rende possibile la vita è il risultato di un dono.

Il dono

Ciò di cui abbiamo veramente bisogno in questa guerra contro la civilizzazione, questa guerra per la nostra sopravvivenza, non è rompere i rapporti ma crearne di più abbondanti. Non abbiamo bisogno di comunità che pretendono di essere autosufficienti, che vivono dei frutti del proprio lavoro, che strappano i mezzi di sussistenza dal grembo di una terra inerte e passiva con il sudore della propria fronte. Abbiamo bisogno di comunità che ridicolizzino le idee stesse di lavoro e proprietà, facendo rivivere la reciprocità, coltivando il dono e aprendo gli occhi alla visione del mondo che queste pratiche creano.

La terra ci offre i doni di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, se li cerchiamo, e noi possiamo restituirle qualcosa con i nostri scarti, con il nostro amore e, quando moriamo, con i nostri stessi corpi. Voler vivere in modo reciproco è uno scopo ammirevole e un progetto che può darci forza nelle nostre lotte. Per coltivare questi doni, dovremo reimparare molte abilità tradizionali che il capitalismo ci ha sottratto. A questo proposito, la pratica del dono sembra equivalere alla pratica dell’autosufficienza. Ma invece di un avaro auto-approvvigionamento calcolato per eliminare le dipendenze, possiamo promuovere una ricca rete di interdipendenza attraverso una generosità attiva che erode la scarsità e l’alienazione capitalistiche.

Quando hai un giardino, hai abbondanza. Lo stesso vale se hai un’abilità che ti permette di compiere atti artistici e creativi. Nel momento in cui inizi a vendere questa abbondanza, o a limitarla per dedicare le tue energie al soddisfacimento di tutti gli altri tuoi bisogni all’interno di un circuito chiuso, nasce la scarsità.

Invece di un circolo chiuso, il dono è un invito sovversivo ad abbandonare il capitalismo e la visione del mondo che esso inculca. Questo è vero sia che il dono sia un cesto di pomodori del tuo orto, funghi o calendule che hai raccolto, una giornata trascorsa a misurare e tagliare i telai delle porte per la nuova casa di un vicino, o un pomeriggio passato a prendersi cura dei figli di un amico. Ricambiare ci dà piacere e, attraverso il cerchio aperto del dono, formiamo una vasta rete di complicità e relazioni attraverso la quale possiamo nutrirci e sostenerci a vicenda. Invece di fuggire dalle città, tornare alla terra in una rivolta destinata all’autoisolamento e al fallimento, la pratica del dono ci permette di tornare sul terreno del capitalismo – e di tutte le persone che vi sono prigioniere – con forme di abbondanza e condivisione che incoraggiano ulteriori lotte.

Infine, l’idea fondamentale di reciprocità e generosità è incompatibile con lo sfruttamento della natura, mentre i progetti animati dall’autosufficienza spesso danno origine ad atteggiamenti pionieristici e produttivistici.

In città, in campagna e in montagna, la natura selvaggia e la lotta contro la civilizzazione sono possibilità sempre presenti. In quei momenti inevitabili in cui cerchiamo un po’ di tregua, quando cerchiamo di nutrirci come forma di lotta e quando tentiamo di trovare una nicchia che ci permetta di formare una parte sana di una rete di esseri viventi, il modo in cui comprendiamo il nostro obiettivo e la visione in cui esso si inserisce avrà un grande effetto su ciò che raccogliamo.

La condivisione dei doni sembra un gesto semplice, ma in realtà è una pratica ribelle e un tipo di relazione con il mondo che, se portata alle sue conclusioni, significherà l’abolizione della proprietà, l’abbattimento di muri e recinti, la distruzione di ogni legge e la liberazione di ogni schiavo. Tutto ciò che serve è l’audacia, il desiderio e la generosità senza limiti per rompere con l’isolamento, l’insicurezza, la miseria, la solitudine, la dipendenza e la paura che costituiscono la nostra cultura.

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