Questo testo è apparso originariamente su The Year of Black Clothing, un blog di Natasha Alvarez. Natasha è una compagna anticiv che non si limita a scrivere analisi e testi con un taglio militante e politico, ma utilizza spesso il mezzo del racconto e della poesia per esplorare emozioni come il lutto, la solidarietà e la ribellione in un pianeta che affronta il collasso. Ho conosciuto le sue parole e i suoi pensieri grazie a Liminal, opuscolo tradotto e pubblicato da Hirundo, un testo personale e intimo, pieno di rabbia verso la civilizzazione e i lutti che provoca e al contempo pieno di amore per la Terra. Il testo che ho tradotto e vi propongo parla proprio di questo: di come tornare ad amare il vivente, il selvatico e la Terra, affrontando e sopravvivendo all’agonia e alla perdita prodotte dalla società tecno-industriale. Perchè per incominciare ad inselvatichirsi e a sciogliere le briglie dell’addomesticamento, abbiamo bisogno prima di tutto costruire relazioni e comunità, prendere atto del collasso e imparare di nuovo a metterci in ascolto della canzone della terra e dei suoi abitanti. Per il selvatico e l’anarchia.

Per molti anni, per la maggior parte della mia vita adulta, ho cercato di stabilire una connessione più profonda con la terra.
A volte questo ha significato studiare il mondo naturale sui libri. Ho letto guide da campo e libri di testo, disegnato mappe e letto il comportamento degli animali, studiato i bacini idrografici, il ciclo vitale, il sistema di classificazione e le piante. A volte ha significato vivere all’aperto, campeggiare in tutte le stagioni, nuotare nei laghi, scalare le montagne e bere tè intorno ai falò con cari amici al mio fianco.
A volte è stato come trascorrere ore al freddo e altre al caldo sole d’estate, stando seduta immobile a guardare gli uccelli che costruiscono i nidi o gli scoiattoli che nutrono i loro piccoli. A volte ha avuto il volto dell’attivismo, come la partecipazione a manifestazioni, l’organizzazione di eventi comunitari e il prendere parola.
A volte ho chiamato il processo rewilding (inselvatichimento). A volte ho chiamato il processo riconnessione, reintegrazione.
A volte mi sono sentito in sintonia con l’idea di non domesticazione.
A volte l’ho chiamato semplicemente amore, nato da una profonda fame di una vita più significativa di quella che la nostra civiltà vuole offrirci.
Con il ricongiungimento arriva il dolore. La parte dolorosa dell’amare profondamente qualcosa è comprendere la terribile realtà della perdita. Che nulla qui sulla terra è destinato a durare per sempre.
Che la Terra stessa un giorno cesserà di esistere, e con lei tutti i magnifici esseri che chiamano questo luogo la loro casa.
Ancora più terribile è capire che la nostra civiltà non è in sintonia con il pianeta e i suoi ritmi. È una dura verità rendersi conto che stiamo vivendo in un modo che causa sofferenza ad altri esseri viventi, che rende invivibili intere regioni del pianeta, che priva interi ecosistemi di ogni parvenza di vita. È una realtà dolorosa e terribile rendersene conto, e peggio ancora è la sensazione di impotenza che ne può derivare.
Anche se ne siamo consapevoli e desideriamo cambiare le nostre attuali condizioni, è difficile capire esattamente cosa fare per cambiare le cose e come.
Dalle esperienze fatte finora so che è possibile ricordare. Siamo capaci di imparare molto, di ricordare i nomi delle cose, di imparare le forme delle foglie e le tracce nel fango. Ma c’è un altro aspetto dell’inselvatichimento che forse è più difficile da praticare, non si trova in nessun libro di testo, non è qualcosa che si può ovviamente vedere, seduti in silenzio in una giornata fredda o sotto il sole cocente.
Si tratta del processo di risveglio emotivo.
La nostra è una civiltà piuttosto brutale in cui esistere. Per sopravvivere al suo interno, ci impone di lavorare contro le nostre naturali inclinazioni a essere esseri altamente empatici e orientati alla comunità, e ci impone invece di competere l’uno con l’altro e di chiudere un occhio sulla sofferenza che si verifica quotidianamente intorno a noi. Non siamo violenti nel profondo. Intelligenti? Si. Astuti? Forse.
Capaci di adattarci, creare e inventare alla velocità della luce? Sì. Siamo tutte queste cose e sono quelle che ci hanno permesso di avere un grande successo qui sul pianeta Terra.
Ma siamo anche gentili. Teniamo i nostri bambini in un delicato abbraccio. Facciamo l’amore, ci prendiamo cura delle foreste e dei campi, cacciamo, naturalmente per procurarci il cibo, ma anche in questo caso la nostra predisposizione è quella di essere gentili, veloci e umani.
Non siamo brutali per natura. Le nostre mani sono fatte per tenere, per stringere, per afferrare, per unire. Abbiamo successo grazie alla nostra predisposizione all’empatia non a dispetto di essa.
La nostra civiltà non coltiva l’empatia o la sensibilità. Ci chiede di andare avanti, sempre avanti, in una marcia disperata di colonizzazione e di capitalismo, trasformando gli esseri viventi in esseri morti e trasformando la vita, il mondo naturale e il nostro prezioso ecosistema in merce.
Quando siamo isolati, quando ci troviamo di fronte a una vita piena di dolore, come meccanismo di sopravvivenza molti di noi scoprono di spegnersi emotivamente. Come una lumaca in pericolo che si chiude nel suo guscio, ci ritiriamo in noi stessi, portando le parti più sensibili del nostro io emotivo in profondità, nelle caverne del nostro paesaggio interiore, dove è sicuro. Costruiamo muri intorno a queste parti emotive, le nascondiamo e dopo un po’ ce ne separiamo, non riusciamo più ad accedervi o forse dimentichiamo addirittura che siano mai esistite.
Ma per essere pienamente noi stessi, per vivere il mondo in modo autentico e profondo, dobbiamo risvegliare le parti emotive di noi stessi che sono rimaste sopite.
A volte, spesso, si tratta di un processo inconsapevole e non pianificato, spesso innescato da esperienze di vita intense, come l’innamoramento o una grande perdita. Momenti di intensa emozione possono risvegliare il nostro io emotivo addormentato e, come un orso risvegliato dal letargo prima di essere pronto, l’esperienza può essere disorientante e dolorosa. E a volte anche intensamente piacevole, a seconda delle circostanze.
Quando le parti sopite di noi stessi si risvegliano e ricominciano a funzionare, può sembrare che gli arti che erano addormentati formicolino di spilli e aghi. Quando iniziamo a sperimentare il mondo in modo più completo con i nostri sensi, il processo può essere scomodo e travolgente. Gestire le nostre emozioni richiede pratica e le parti di noi stessi che sono state addormentate hanno bisogno di tempo per crescere, svilupparsi e diventare complete.
Nell’ultimo anno ho perso mia madre, a cui ero molto legata, e mi sono anche separata dal mio compagno dopo 17 anni. È una quantità di cambiamenti e perdite impressionante da comprendere, e ho lottato per trovare un equilibrio e un nuovo senso di normalità nella mia vita, che improvvisamente appare e si sente molto diversa da quella di prima.
Mi sento come un bambino appena nato, che non sa bene come muoversi nella vita e non ha il controllo di tutte le sue facoltà. O forse la sensazione è più quella di essere un alieno proveniente dagli angoli più remoti del nostro universo, improvvisamente atterrato sul pianeta Terra e che sta cercando di imparare i modi e le usanze di uno spazio che mi è del tutto sconosciuto.
La perdita di mia madre ha provocato un cambiamento radicale nella mia realtà. La mia esperienza qui senza di lei è molto diversa dalla realtà in cui ho vissuto per i primi 35 anni della mia vita. Il corpo che mi ha portato qui, il seno che mi ha nutrito, le braccia che mi hanno sorretto e l’amore che mi ha sostenuto sono scomparsi, lasciando in me un profondo desiderio di qualcosa che non esiste più su questo piano.
E cosa posso fare al riguardo? Niente. Se non ricordarmi di lei e tenere cari i ricordi che ho di lei. Posso sussurrarle nei momenti di silenzio e farle visita nei miei sogni, ma per il resto posso solo sedermi con questi sentimenti difficili, lasciare che mi investano, piangere un oceano di lacrime e cercare la vita, l’amore e la bontà ovunque possa vivere. Ma la sua perdita ha risvegliato anche me. Anche dopo tutti i miei anni di lavoro di rewilding, ci sono così tante parti di me che ancora dormono. La perdita di mia madre e del mio matrimonio ha portato una nuova prospettiva nella mia vita. Parti del mio io emotivo a lungo sopite si sono risvegliate. Sono estremamente vulnerabile, ma anche probabilmente più forte di quanto sia mai stata. Quando è stato chiaro che il cancro di mia madre e la prognosi del mio matrimonio erano entrambi molto probabilmente terminali, ho pensato che sarei sicuramente morta sotto il peso di tutta quella perdita. E sinceramente in alcuni momenti avrei voluto cessare di esistere, tanto era grande il dolore.
Ma non sono morta. Non sono scomparsa. Non mi sono frantumata in un milione di pezzettini e non sono andata via nel vento. Sono seduta qui a respirare, con le dita che battono su questa tastiera, e sono grezza, e un po’ fragile, ma anche calda, e sveglia, e viva.
Possiamo aiutarci a vicenda in questi momenti difficili. Siamo empatici e gentili. Possiamo tendere una mano a chi ne ha bisogno, possiamo condividere le nostre esperienze, possiamo percorrere le strade dell’amore e della perdita in comunità con altri che stanno vivendo le stesse esperienze.
E, cosa importante, possiamo attraversare questi risvegli anche da soli. Nella notte, nei momenti di solitudine, ci fa compagnia il ritmo del battito del nostro cuore, il sangue che scorre nelle nostre vene, la terra sotto i nostri piedi e le nuvole che si muovono velocemente nel cielo. Quando le parti addormentate di noi si risvegliano, riacquistiamo la capacità di sentire profondamente, di percepire l’invisibile e di conoscere alcuni piccoli frammenti dell’inconoscibile. E il nostro mondo cambia a sua volta, e di conseguenza.
Se il successo della civiltà si basa sulla nostra capacità di reprimere le emozioni, certamente uno degli atti più ribelli e potenti che possiamo compiere è quello di permettere a noi stessi di provare semplicemente emozioni, senza giudizi, senza sensi di colpa, senza imbarazzo e con grande e fragoroso abbandono.