Per sanare la frattura, per distruggere la civilizzazione che ha colonizzato i nostri corpi, gesti, parole e sogni, per tornare selvatici, questo testo scritto da Emory Wilder e pubblicato sul numero diciannove di Green Anarchy potrebbe essere un’inizio di guarigione.
Ci è stato inculcato nella testa che la vita al di fuori della civiltà è dura, brutale e breve, che la natura è crudele e spietata. Abbiamo imparato che i “selvaggi” dovevano lottare giorno e notte in un caos assordante solo per sopravvivere e (allo stesso tempo) che erano pigri e indolenti, che se ne stavano sdraiati ad aspettare che gli uomini bianchi li mettessero al lavoro. Ma gli esperti della civiltà in questo campo, gli antropologi, ci parlano di “abbondanza primitiva”, di persone che lavorano – se si può chiamare lavoro camminare nei boschi raccogliendo bacche – due ore al giorno per avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Ci dicono che i cacciatori-raccoglitori erano (e sono) egualitari e liberi da ogni autorità, non possedevano nulla ma avevano tutto. Che vivevano immersi nei ritmi profondi della terra e che questo li rendeva radiosi di felicità. I !Kung San in Africa hanno vissuto sulla stessa terra per due milioni di anni prima che i colonizzatori bianchi li riducessero in schiavitù nelle miniere. Gli indiani Arawak accolsero Colombo come un fratello perduto da tempo, entrando nell’oceano con doni e braccia aperte. Lui allineò i loro bambini in fila per vedere quante teste poteva tagliare con un solo colpo di spada.
Cosa c’è nella vita civilizzata che genera predatori come Colombo e poi spinge il resto di noi a organizzare ogni anno parate in suo onore? Gli esseri umani si sono evoluti per vivere in profonda relazione con la terra, per vivere in modo selvaggio, libero e felice. Quando abbiamo smesso di credere che la terra ci avrebbe nutrito, abbiamo iniziato a cercare di controllarla. Quando abbiamo separato l’addomesticato dal selvaggio, abbiamo separato anche la nostra salute e la nostra felicità.
Questa fiducia infranta, questa separazione, è stata ed è tuttora devastante. Il vaso di Pandora si è aperto e ne è uscita la frenetica follia della civiltà: agricoltura, guerra, gerarchia, città, stupro, schiavitù, lavoro, addomesticamento, esplosione demografica, religione (pensate davvero che il Dio che ha richiesto il Destino Manifesto, la tratta degli schiavi, le Crociate e l’Inquisizione vi salverà in qualche modo?), scienza, tecnologia, tempo (sbrigati a finire di leggere, non hai altro da fare?), proprietà, l’intera rete intrecciata di istituzioni che ci tengono sotto il suo giogo. Il nostro spirito umano selvaggio, come la selvaggia e bellissima terra, è diventato il carburante per i motori della distruzione che oggi ci stanno divorando tutti.
Questo predatore che imperversa sulla terra ha molti nomi. Lo Stato. L’Impero. L’America. Il Commercio. La Produzione. Il Lavoro. L’Autorità. La Civiltà. È il colpevole, lo psicopatico. È impersonale, insensibile, insaziabile, violento, invasivo e assolutamente spietato. È la Macchina. Abbiamo impiegato diecimila anni per creare un mondo a sua immagine e ora sta divorando noi e tutto ciò che riesce a raggiungere. Ed è nelle nostre teste. La stessa divisione che ha dato origine alla civiltà ha aperto una ferita nella nostra psiche che ancora oggi ci fa male. Nasciamo in un mondo aperto e pieno di passione. Sorridiamo, ridiamo, giochiamo, esploriamo. Siamo tutti bambini dell’età della pietra pieni di vita, anarchia naturale che pulsa di gioia! Ma quando noi bambini primitivi incontriamo la macchina tritacarne della civiltà, il destino degli Arawak e dei !Kung San diventa il nostro. La gioia travolgente incontra la violenza civilizzata, e l’assalto ci mette contro il nostro vero io profondo. Solo per sopravvivere, siamo costretti ad accettare follie – il tempo, il denaro, il “possedere” cose, le scatole in cui vivere, i cartelli che ci dicono cosa fare, le sostanze chimiche nel nostro cibo, i banchi disposti in file, l’idea che alcune persone o razze o sessi o specie siano migliori di altre, e così via – che semplicemente non sono naturali per noi. Impariamo a odiare, temere, distruggere e a renderci insensibili al dolore, e impariamo a mentire, soprattutto a noi stessi. Man mano che la programmazione si radica più profondamente, iniziamo a credere che questo sia progresso, che dobbiamo conquistare tutti gli altri affinché possano vedere quanto siamo fortunati.
Allontanati sempre più dalla nostra integrità ancestrale, sviluppiamo un falso sé – sottomesso all’autorità, timoroso della passione, in guerra con il corpo, sorridente mentre il nostro cuore grida – per nascondere il nostro orrore per ciò che ci sta accadendo. Cerchiamo di conquistare il nostro io più profondo per essere buoni americani, buoni cittadini, buoni genitori, buoni lavoratori, buoni consumatori, buoni elettori, buoni tedeschi e ci identifichiamo con il predatore nazista mentre le fiamme di Auschwitz bruciano le nostre anime. Disperatamente terrorizzati, crocifiggiamo la nostra stessa umanità, imparando a usare noi stessi, gli altri, la terra, tutto, come oggetti. Diventiamo teste disincarnate, frammentate, incoerenti che corrono freneticamente nelle macchine alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che ci salvi da noi stessi, che attenui questo costante disagio che ci rode profondamente lo stomaco.
Ma ciò che cerchiamo è sempre stato dentro di noi. Non importa quanto reprimiamo le nostre passioni per placare il sistema, esse non muoiono mai. Poiché il nostro fuoco primordiale arde sempre dentro di noi, non potremo mai essere civilizzati ed essere integri. Quando smettiamo di identificarci con il predatore, troviamo un intero mondo di desiderio ardente, gioia radiosa e profonda quiete che ci aspetta. Le tensioni sepolte da tempo si allentano quando troviamo ciò che è sempre stato con noi e, mentre affondiamo i piedi nel terreno, risvegliamo una forza e un potere che non avremmo mai creduto possibili.
Questo è il punto di svolta. Vivendo ciò che conosciamo nel profondo, diventiamo dei rinnegati della civiltà. Infuriando liberamente, soffrendo profondamente, danzando gioiosamente, sembriamo pazzi a coloro che sono intrappolati nella sua follia. Non crediamo più nelle sue regole e nelle sue punizioni, perché sappiamo nel profondo del nostro cuore che la nostra danza è infinita. Seguiamo i ritmi della terra e guariamo organicamente nelle sue profondità. Proprio come l’albero sgretola il marciapiede, noi mettiamo radici e spezziamo le catene che imprigionano le nostre menti, l’armatura che vincola i nostri corpi, le maschere che nascondono la nostra intelligenza.
Il nostro approccio alla vita diventa l’ascolto. Mentre la marea primordiale sale dentro di noi, seguiamo il desiderio che arde nei nostri cuori e l’istinto che scorre nel profondo dei nostri corpi. Ascoltiamo coloro che sono più in basso nella scala dei valori della civiltà – altre etnie, donne, bambini, i nostri corpi, l’aria, gli uccelli, le rocce, gli alberi – e la loro saggezza ci guida. Ascoltiamo gli altri e troviamo nelle relazioni e nella comunità livelli di intimità che prima difficilmente potevamo immaginare. Aprendo i nostri cuori, i nostri corpi, i nostri sensi, il nostro intero essere, ci innamoriamo di nuovo della vita. Accogliamo la natura selvaggia nel profondo di noi stessi, un albero, un fiume, un momento alla volta, e una gioia calda e profonda si insedia nelle nostre ossa mentre torniamo alla casa che non avremmo mai potuto lasciare veramente.
Diventare selvaggi significa cose diverse per ognuno di noi. Non so cosa dovresti fare o come dovresti vivere la tua vita. Ma guardando il predatore negli occhi, dicendo a te stesso la verità su ciò che vedi, andando alla radice delle tue domande e ascoltando le tue passioni più profonde, lo capirai. Scoprirai che la tua resistenza è forte, qualunque metodo tu scelga, che il tuo intuito vede bene, che la tua immaginazione vola libera, che il tuo desiderio arde luminoso. Rifiutando il veleno del predatore, scoprirai che il tuo NO ti tiene saldo nella tua posizione, e abbracciando il sangue delle tribù che scorre nelle tue vene, scoprirai che il tuo SÌ incanta tutto ciò che tocchi.
Alcuni nativi nordamericani dicono: “Oggi è un grande giorno per morire”. Ed è vero! Ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Ma i morti possono ballare! Quando moriamo per la civiltà, siamo pieni di una tempesta di fuoco estatica. Quello che abbiamo ora non potremo mai perderlo. Le nostre passioni infuriano senza limiti anche quando le nostre anime riposano nel profondo silenzio dell’universo. Lasciandoci andare al mistero della vita, troviamo l’avventura nel non sapere. Celebrando con stupore la meraviglia di ogni momento prezioso, liberiamo finalmente i nostri cuori dalla morsa del predatore. Danzando sulle rovine fumanti della follia tecnologica, ridiamo follemente dal profondo del nostro essere. Sentendo il ritmo di Eros pulsare nei nostri corpi, ci scateniamo nel nostro gioco. Fidandoci dei desideri che infuriano dentro di noi, torniamo ad essere integri. E diventando finalmente la natura selvaggia che amiamo, ci sciogliamo con gioia nella danza fluida della foresta primordiale e antica.