di Homer Bust, articolo con cui si apre il numero 19 di Green Anarchy.
Quello che ho deciso di tradurre è uno degli articoli più interessanti partorito dal fertile terreno della Green Anarchy statunitense. Un testo che mi ha permesso di fare ordine tra tanti pensieri e convinzioni che ho sempre sentito scorrere in me e che ha cambiato in maniera radicale la mia visione sull’essere indigeni, se con indigeno intendiamo qualcuno nativo e interconnesso ad un determinato luogo e territorio. Come scritto dall’autore Homer Bust, tutti apparteniamo ad un territorio e siamo in relazione con gli esseri viventi e non che lo compongono e con le storie che ci hanno raccontato fino ad oggi. Nessuno di noi ha scelto il capitalismo, la civilizzazione, il progresso o la modernità, moltissimi di noi sono vittime ignare di questi processi coloniali che hanno distrutto i legami ancestrali che avevamo con la Terra e con i luoghi in cui, generazione dopo generazione, siamo vissuti e continuiamo a vivere. La civilizzazione capitalista è stata un’imposizione coloniale sia per i popoli che hanno subito le sue logiche nel vecchio mondo e conseguentemente per tutte le popolazioni native non europee. Quei popoli e quelle genti sono state dislocate, derubate, culturalmente e militarmente colonizzate, gli sono stati imposti modelli di vita, di gestione delle risorse e delle terre, credenze, usanze, lingue, il tutto in un’ottica unificatrice e centralizzata. Quindi si, se vogliamo opporci al capitalismo e alla civilizzazione, dovremmo anzitutto riscoprirci indigeni dei territori che abitiamo e che abbiamo abitato in modalità diverse da quelle imposte dalle logiche capitalistiche, mercificanti, utilitaristiche, industrialiste, urbaniste e addomesticate. Solo così potremmo aspirare a vivere una vita radicalmente diversa lontana dalla civilizzazione.
Non sono caduto dallo spazio… Per quanto possa apparire estraneo a questo pianeta, a questo terra, a questa gente, io vengo da questa territorio. Dalla sua acqua, dal suo suolo, dalla sua gente, dal suo sangue. Mi ha fornito una vita, che vivo volentieri e umilmente. Nonostante tutti i tentativi della logica civilizzata di separarmi, di dislocarmi, di distruggere il mio legame, sono ancora parte di questa fusione di vita, di questo insieme profondamente connesso di esseri viventi.
Io, come tutti noi, ho una discendenza diretta con un modo diverso di esistere, con un’esperienza diretta con il mondo. Un tempo vivevamo senza mediazioni con la terra, mangiavamo direttamente dalla foresta, bevevamo direttamente dalle sue acque, dormivamo toccando la terra, ci curavamo con le sue piante, prendevamo tutte le decisioni sulla nostra vita insieme alle persone che amavamo. Siamo ancora queste persone, solo sfregiate, con un’armatura fredda e goffa creata per noi da una cultura di morte che abbiamo accettato con riluttanza quando e laddove siamo diventati troppo stanchi e deboli. Siamo stati domati. Siamo stati addomesticati. Ma sotto questo peso, questa diffidenza, questa disposizione, siamo ancora connessi.
Sono stato gravemente danneggiato da una generazione dopo l’altra di sconvolgimenti, sconfitte e addomesticamenti per mano dei colonizzatori, e a volte sono stato io a colonizzare. Ma questo è avvenuto solo dopo che sono stato sufficientemente separato dalla terra, dagli altri e da me stesso. Ma soprattutto sono stato solo una pedina e uno strumento nella guerra in corso contro la vita. Ho sofferto molto: per la brutalità diretta che mi è stata inflitta nella mia vita, attraverso metodi istituzionalizzati più sottili, come accumulo del dolore dei miei antenati e per la mancanza di una connessione profonda e più autentica con il mondo.
Sono stato trasferito lontano dal luogo in cui vivevano i miei familiari, eppure riesco ancora a sentirmi connesso a quel luogo. Forse non nello stesso modo in cui i miei parenti erano legati alla terra di cui erano originari, o le persone che erano/sono legate al luogo in cui attualmente poggiano i miei piedi, dove io abito. Ma posso ancora scendere in profondità nel terreno, prendere l’aria nei polmoni, imparare dai sussurri di questo luogo, offrire la mia rispettosa e modesta influenza a questa terra e ricongiungere il mondo intorno e dentro di me.
Mi sono sempre sentito dislocato all’interno della civiltà. Che si tratti di periferie, città o piccoli paesi, mi sono sempre sentito soffocato, vuoto e perso. Viaggiavo da un luogo all’altro, sempre sopravvalutando il contesto successivo. L’erba del vicino sembrava sempre più verde. In questa realtà postmoderna, la dislocazione non è l’eccezione ma la norma, e persino la condizione ricercata. Non potremo mai essere integri finché vivremo al di fuori e al di sopra di ciò che ci circonda o, se vogliamo, lo considereremo come un ambiente e non come parte di noi. A un certo punto penso che sia importante trovare un luogo, una bioregione, una casa (anche se non necessariamente un luogo sedentario).
Ho molto da imparare da chi è profondamente legato al luogo che chiamo casa, da chi ha un rapporto intimo con la terra, gli animali, le piante, le persone e i modelli di questo specifico ambiente. Ho molto da imparare da coloro che si sono evoluti con questo luogo; i cui corpi, le cui menti, i cui spiriti e la cui cultura si sono sviluppati insieme a queste montagne, agli uccelli, agli alberi e ai fiumi. Non voglio “ giocare a fare il nativo” o ad appropriarmi di tradizioni, ma attingere e imparare da una conoscenza fisica e spirituale, in modo da poter vivere in modo rispettoso e sostenibile con questa particolare parte della terra (che è composta da forme di vita infinitamente diverse).
Ho molto da imparare da chi è sopravvissuto. Quelli che sono stati convertiti con la forza agli dei patriarcali. Quelli che sono stati bruciati sul rogo. Quelli a cui sono state date coperte con il vaiolo. Quelli che furono strappati alle loro case e alle loro famiglie e incatenati nelle stive delle navi. Quelli che furono cacciati dalle loro terre e ammassati nei campi. Quelli che sono stati fatti marciare e trascinati lungo sentieri di lacrime. Quelli che furono spogliati, rieducati e assimilati. Quelli che sono diventati bestie da soma. Quelli che furono messi l’uno contro l’altro. Quelli che sono stati messi sui treni, e ancora, ammassati nei campi. Quelli che furono gassati e bruciati. Quelli che sono stati linciati. Quelli che sono stati bombardati. Quelli che sono stati violentati. Quelli che sono stati picchiati. Quelli che sono stati praticamente distrutti, eppure continuano a resistere. Quelli che sono stati frustati, eppure continuano incredibilmente a prosperare. Quelli che cercano di recuperare le conoscenze ancestrali. Quelli che crescono bambini sani. Quelli che mettono a ferro e fuoco le periferie. Quelli che si riconnettono con la terra. Quelli che ricordano. Quelli che sopravvivono. E io ho molto da imparare da me stesso. Ho molto da ricordare.
Non ho creato io questa mostruosità, questo leviatano, questa cultura della morte. Ne sono sia un sottoprodotto che un sopravvissuto. Non sono stato il primo a uscire dalla foresta. Non ho creato le prime separazioni, non ho piantato il primo mais, non ho irrigato il primo campo, non ho addomesticato il primo animale, non ho sottomesso la prima donna, non ho sostenuto la prima gerarchia, non ho fabbricato la prima arma, non ho costruito la prima città, non ho costruito la prima nave, non ho schiavizzato il primo straniero, non ho ucciso il primo indiano, non ho montato la prima ferrovia, non ho costruito la prima fabbrica, non ho diviso il primo atomo, non ho piantato la prima bandiera sulla luna, non ho prodotto geneticamente il primo clone e, come Al Gore, non ho inventato Internet. Ma sono anche profondamente legato alla loro eredità, alla loro innovazione ed espansione. E sono anche vittima della loro eredità di morte, dominio e distruzione. “Piacere di conoscerla, spero che abbia indovinato il mio nome [civiltà]. Ma ciò che ti lascia perplesso è la natura del mio gioco”.
So nel mio cuore e nelle mie ossa che possiamo vivere in modo diverso, che abbiamo vissuto in modo diverso, e che queste possibilità possono unirsi in modi meravigliosi. Non ho aspettative in questo incubo; la mia/nostra unica speranza è di svegliarmi dalla confusione. Non c’è futuro in questo esperimento fallito; tutto ciò che posso fare è rifiutarlo. Non c’è possibilità di riadattamento; può solo essere distrutto. Devo trovare un luogo, delle persone e un modo per vivere in maniera diversa, per riconnettermi e per sognare.
Siamo stati tutti indigeni in qualche luogo, da qualche parte e in qualche modo… e possiamo tornare a esserlo. Le antiche vie non esistono più, ma io sto ancora tornando a casa, non necessariamente da dove sono partito, ma forse da dove ho cominciato.
Augurateci buona fortuna!